sabato 24 giugno 2017

Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra

Dopo 576 pagine e aver lanciato il libro contro mio figlio - capita, era l'unica cosa che avevo in mano in quel momento - e mancando clamorosamente il bersaglio a causa del letto a castello che era frapposto tra noi, sono alfin giunto al termine di Un altro giro di giostra di Tiziano Terzani (1938-2004). 

La storia è nota: a Terzani, inviato del Der Spiegel per una vita, viene diagnosticato un cancro e ricorre alla medicina tradizionale, operandosi - con tutto quel che protocollo vuole - nel Memorial Sloan Kettering Cancer Center (MSKCC) di New York. Terminato il 'ciclo' di cure, decide di partire per cercare 'altre' cure, che culture diverse, tradizioni differenti, hanno messo a punto. Siamo alla fine degli anni '90. Il suo viaggio intorno al mondo durerà a lungo, sette anni, un tempo durante il quale la curiosità del giornalista questa volta è messa a servizio di se stesso, nel tentativo di trovare una cura efficace contro il cancro, che al momento comunque sembra sotto controllo. Tra millantatori, santoni, guru, monaci, erboristi, pranoterapeuti, colonterapia, cristalloterapia, piscio di vacca, meditazione, ashram, Veda, Vedanta, elefanti sacri, erbe, pillole, bevande, purghe, piramidi, etc. etc., Terzani compie un lungo giro di giostra tra Grande Mela, India, Thailandia, Usa, Hong Kong, Filippine, intervallate da alcuni ritorni a casa, ad Orsigna, per varie riunioni di famiglia, alternate alle visite al MSKCC e all'ultimo solitario e silenzioso ritiro in India, ai piedi - appunto - dell'Himalaya, prima in compagnia della moglie Angela, poi da solo, per lunghi mesi.

Terzani affronta questo viaggio con l'occhio disincantato e critico del giornalista ma soprattutto dell'uomo europeo, una natura con la quale deve sempre fare i conti, e che lo condiziona, negli incontri con le altre culture e civiltà, avanzate o meno che siano. Narratore formidabile di storie altrui, questa volta Terzani mette in evidenza anche le sue riflessioni, le paure, il dolore, l'incertezza, e l'instancabile desiderio di trovare una cura. Partito con questo obiettivo, Terzani scopre di essere in realtà in cerca di se stesso, del vero 'io' che è al di sotto di tutti gli strati che fanno di lui ciò che è. In un processo di disgregazione di certezze e di materia, arriva a farsi chiamare in un ashram come 'Anam', ovvero 'il senza nome', annullando la propria identità e la propria storia. Ma come possiamo - sembra chiedersi - essere 'senza nome' e al tempo stesso 'essere se stessi'? Così, tra un'ascesi e l'altra, Terzani capisce che l'identità è anche relazione con l'altro, in una tensione continua tra due polarità: solitudine e contemplazione da un lato, legami e comunità umana dall'altro. Non c'è una soluzione, la scelta è impossibile: perché queste due anime non sono altro che parti costitutive dello stesso uomo. 

E la cura? La cura non esiste. La verità, sembra dire Terzani, è consapevolezza. E la malattia non è altro da sé, ma va accolta come parte di se stessi.

E io? Non avevo tirato qualche saggia conclusione dalla mia vita degli ultimi anni? Andando a giro per il mondo a incontrare medici, maghi e maestri avevo capito che era inutile continuare a viaggiare, che la cura delle cure non esiste e che la sola cosa da fare è vivere il più coscientemente, il più naturalmente possibile, vivere in maniera semplice, mangiando poco e pulito, respirando bene, riducendo i propri bisogni, limitando al massimo i consumi, controllando i propri desideri e allargando così i margini della propria libertà. Allora, che ci facevo lì, sulle tracce dell'ennesimo medico? (T. Terzani, Un altro giro di giostra, p. 496).

Mi sono appuntato, durante la lettura, alcuni passaggi, che ritrascrivo. Mi hanno fatto riflettere e hanno rispecchiato, in taluni punti, ciò che penso e credo.

Viaggio
Si fermò come per farci riflettere.
"E questa non è coscienza". Toccandosi il petto concluse: "Ciò che è fuori è anche dentro; e ciò che non è dentro non è da nessuna parte".
Poi, come se volesse alleggerire l'atmosfera, scoppiò in una bella risata e, rivolto a me, aggiunse: "Per questo viaggiare non serve. Se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori. E' inutile andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di sé". 
Mi sentii colpito. Aveva ragione.
(Ibidem, p. 516)

Libertà
Appena ci si stacca dalla routine, ci si accorge di quanta poca libertà, anche interiore, si ha nella vita di tutti i giorni e di come quel che solitamente facciamo e pensiamo è spesso frutto di semplici automatismi. Diamo per scontati i ragionamenti della ragione, le nozioni della scienza, le esigenze del nostro corpo e quelle della logica e con ciò ci impediamo di vedere il mondo e noi stessi in modo diverso dal solito. 
Anch'io, quante idee e convinzioni, quanto "sapere" avevo accumulato nella mia vita! E non sarebbe stato bello tornare a essere un foglio bianco su cui scrivere qualcosa di completamente nuovo?
(Ibidem, p. 526)

Guru
"Il guru è importante", continuò il Vecchio. "Esprime a parole quel che tu senti come vero dentro di te. ma una volta che hai fatto l'esperienza diretta di quella Verità non hai più bisogno di lui. Il guru ti indica la luna, ma guai a confondere il suo dito con la luna. Il guru ti fa vedere la strada, ma quella la devi percorrere tu. Da solo."
Poi, come fosse arrivato il momento di dirmi una cosa che poteva davvero aiutarmi, aggiunse: "Il vero guru è quello che sta dentro di te, qui", e mi puntò uno dei suoi diti ossuti contro il petto. "Tutto è qui. Non cercare fuori da te. Tutto quello che potrai trovare fuori è per sua natura mutevole, impermanente. Ti puoi illudere di trovare stabilità nella ricchezza, ma poi quella finisce. Puoi pensare di trovarla nell'amore di una persona, che poi se ne va. O nel potere, che facilmente cambia di mano. Puoi affidare la tua vita a un guru e quello muore. No, niente di ciò che è fuori ti appagherà mai. La sola stabilità che può aiutarti davvero è quella interiore. E i guru che si rendono indispensabili servono il proprio Io e non la ricerca dei discepoli."
(ibidem, p. 539)

Ragione e mistero
Le mie saltuarie visite al mondo, specie quelle a New York, dove non solo il beneamato ospedale, ma anche tutto il resto rappresentava la punta più avanzata di quel che la civiltà occidentale era capace di produrre, mi avevano rafforzato nell'idea che la soluzione ai problemi umani non può venire dalla ragione, perché proprio la ragione è all'origine di gran parte di quei problemi.
La ragione è dietro all'efficienza che sta progressivamente disumanizzando le nostre vite e distruggendo la terra da cui dipendiamo. La ragione è dietro alla violenza con cui crediamo di mettere fine alla violenza. La ragione è dietro alle armi che costruiamo e vendiamo in sempre maggiore quantità per poi chiederci come mai cono sono così tante guerre e tanti bambini che vengono uccisi. La ragione è dietro alla cinica crudeltà dell'economia che fa credere ai poveri che un giorno potranno essere ricchi mentre il mondo in verità si sta sempre più spaccando fra chi ha sempre di più e chi ha sempre di meno. 
La ragione, che pur ci è stata di grande aiuto e ha contribuito al nostro benessere, soprattutto quello materiale, ci ha ora messo in catene. Dopo aver negato qualsiasi ruolo alle nostre emozioni e all'intuito, dopo aver fatto dei sogni una lingua morta, la ragione ci impone ora di pensare e di parlare esclusivamente a suo modo. 
La ragione ha tagliato via dalle nostre vite il mistero, ci ha fatto dimenticare le favole, ha reso superflue le fate e le streghe che invece servivano tanto a completare il nostro altrimenti arido panorama esistenziale.
(ibidem, p. 548)

"Io, chi sono?"
La risposta sta nel porsi la domanda, nel rendersi conto che io non sono il mio corpo, non sono quello che faccio, non sono quello che posseggo, non sono i rapporti che ho, non sono neppure i miei pensieri, non le mie esperienze, non quell'Io a cui teniamo così tanto. La risposta è senza parole. E' nell'immergersi silenzioso dell'Io nel Sé.
(ibidem, p. 551)

Rivoluzione
Più che assaltare le cittadelle del potere, si tratta ormai di fare una lunga resistenza. Bisogna resistere alle tentazioni del benessere, alla felicità impacchettata; bisogna rinunciare a volere solo ciò che ci fa piacere. Bisogna non abbandonare la ragione per darsi alla follia, ma bisogna capire che la ragione ha i suoi limiti, che la scienza salva, ma anche uccide e che l'uomo non farà alcun vero progresso finché non avrà rinunciato alla violenza. Non a parole, nelle costituzioni e nelle leggi che poi ignora, ma nel profondo del suo cuore. 
La strada da percorrere è ovvia: dobbiamo vivere più naturalmente, desiderare di meno, amare di più e anche i malanni come il mio diminuiranno. Invece che cercare le medicine per le mattie cerchiamo di vivere in maniera che le malattie non insorgano. E soprattutto, basta con le guerre, con le armi. Basta coi "nemici". Anche quello che faceva impazzire le mie cellule non era tale. Al momento siamo noi i nemici di noi stessi.
Bisogna riportare una dimensione spirituale nelle nostre vite ora intrappolate nella pania della materia. Dobbiamo essere meno egoisti, meno presi dall'interesse personale e più dedicati al bene comune. Bisogna riscoprire il senso di quel meraviglioso, lapidario messaggio sulla facciata del duomo di Barga in Garfagnana che lessi da ragazzo durante una gita scolastica e che da allora m'è rimasto impresso nella memoria.
"Piccolo il mio, grande il nostro".
(ibidem, p. 571-572)

Lieto fine
E che cos'è lieto, in un fine? E perché tutte le storie ne debbono avere uno? E quale sarebbe un lieto fine per la storia del viaggio che ho appena raccontato? "...e visse felice e contento"? Ma così finiscono le favole che sono fuori dal tempo, non le storie della vita che il tempo comunque consuma. E poi, chi giudica ciò che è lieto e ciò che non è? E quando?
A conti fatti anche tutto il malanno di cui ho scritto è stato un bene o un male? E' stato, e questo è l'importante. E' stato, e con questo mi ha aiutato, perché senza quel malanno non avrei mai fatto il viaggio che ho fatto, non mi sarei mai posto le domande che, almeno per me, contavano.
Questa non è un'apologia del male o della sofferenza - e a me ne è toccata ancora poca. E' un invito a guardare il mondo da un diverso punto di vista e a non pensare solo in termini di ciò che ci piace o meno. 
E poi: se la vita fosse tutto un letto di rose sarebbe una benedizione o una condanna? Forse una condanna, perché se uno vive senza chiedersi perché vive, spreca una grande occasione. E solo il dolore spinge a porsi la domanda. 
(ibidem, p. 573)