lunedì 15 ottobre 2012

Il senso di una fine. The sense of an ending

Il senso di una fine è ambivalente: da un lato è il senso della fine di Adrian. Ma è anche il senso della fine della vita del protagonista, della vita di ognuno. E' il senso del destino di tutti - la morte - ma anche più strettamente, del suo rapporto con Veronica. La disquisizione sulla "storia", che sembra accidentale, nella rievocazione degli anni del college, ovviamente, accidentale non è. Ci sono già lì le basi per capire - e l'autore/protagonista lo ripete abbastanza spesso - che la storia non esiste, o meglio: la storia personale è un insieme di fatti rievocati dalla memoria personale, e pertanto potrebbero anche essere memorie di cose andate diversamente. Per questo c'è bisogno di conferme: Ti ricordi quando siamo andati a vedere la marea? chiede a Veronica. Il suo sì conferma la verità di quel ricordo, perché condiviso.
Non era stato possibile cioè capire perché Adrian si fosse ucciso - e, fra l'altro, sulla cosa, cala subito il riserbo di tutto il gruppo di amici che non hanno il coraggio di chiedere o di andare a fondo, salvo farlo 45 anni dopo circa - proprio perché era appena avvenuto. 
Tanti anni dopo invece tutto si dipana, nonostante la durezza di Webster che sembra non riesca proprio a capire alcunché. Ma neanche il lettore capisce alcunché e solo nella penultima pagina circa viene svelato l'arcano. Tony può comprendere solo ora, solo ora che non è più possibile - per dirla con Franzen - apportare alcuna correzione

Oltre ai personaggi che si alternano nelle pagine è la memoria la protagonista di questo racconto lungo: la memoria selettiva, la memoria fallace, la memoria di tutti, in base alla quale si tende, della propria vicenda personale, a ricordare tanto, dimenticare molto, modificare qualcosa. Il fatto che poi Tony ci racconti della cartolina su cui ha scritto ai due fedifraghi "vi benedico" salvo poi scrivere una lettera più acida, senza rivelare al lettore cosa ci sia, in quelle nuove righe, è una selezione che Tony/Barnes fa nei confronti del lettore medesimo: non ci rivela un particolare essenziale. La trasposizione integrale della lettera nel capitolo due sarà una rivelazione per lui stesso, ma anche per il lettore, perché questo mite, inerme forse inetto uomo, che ha visto la vita scorrere via senza fare nulla per esserne protagonista, un uomo che si accontenta, in realtà ha inferto pugnalate tremende al suo più caro amico, al suo più grande (?) amore. Ciò che poi ne è seguito, è l'imponderabile della vita di ognuno, ciò che sperimentiamo. Mai e poi mai ovviamente Tony avrebbe voluto che si avverasse quello che aveva scritto, ma era successo. Letteralmente, quasi. Ed è perfettamente inutile chiedere scusa: lo fa perché si sente in colpa, ma ha anche la consapevolezza che quel ragazzo poco più che adolescente, redattore di quella missiva "micidiale", per l'appunto non esiste più. Se ne dissocia pur non potendo, in effetti, farlo realmente, perché è sempre se stesso. Si assolve, ma si sente comunque in difetto, in colpa. E quando capisce quale orrore sia avvenuto tanti anni fa, non se ne sente responsabile, ma ne soffre. E chiude con il tempo, il tanto tempo inquieto che viviamo tutti. 

C'è tanto in questo libro che mi ha attirato: la paura di condurre-rischiare di condurre una vita come il protagonista, accettando e lasciandomi vivere (non è così al 100%, ma chi si può dire libero a tal punto da non assecondare nulla e nessuno? Non è forse vero che tutti ci facciamo, giocoforza, trascinare dagli eventi? Chi è in grado di resistere resistere resistere tutti i giorni, opponendo strenua resistenza? O non è forse vero che è solo adattandosi che l'essere umano riesce a crescere, maturare e anche a progredire? E quali sono le battaglie che vale la pena combattere e quelle che invece si possono perdere?). 
Poi c'è la memoria: anche io facilmente dimentico cose spiacevoli, ricordo spesso solo il bene. In pratica: me la racconto. E anche io solo oggi riesco a capire - e andando avanti, capisco sempre meglio - il valore di alcuni episodi/vicende della mia non più breve vita. Il trascorrere del tempo, nonostante le nostre interpunzioni e interpolazioni e la benevolenza che vogliamo a noi stessi, in qualche modo ci dona maggior consapevolezza, maggiore lucidità. Ed è proprio quello che i ragazzi all’inizio sanno per teoria, ma che poi sperimentano con la pratica di un’intera vita solo alla fine. Allora ripenso a Pavese e al suo alter ego nella "Casa in collina", quando aggirandosi fra le sue colline, si immaginava di vedere in un sasso, in un dosso, qualche corpo morto. E che i morti si assomigliano tutti, perché “solo per loro la guerra è finita davvero”. Sono fatti, quelli della seconda guerra mondiale, per esempio, ancora troppo vicini a noi, per poter avere quello sguardo che Tony riesce, comunque con difficoltà, a gettare sulla storia, sulla sua storia. Ma questo non c’entra niente con la nostra storia, come scrive tante volte Barnes nel libro, aprendo parentesi che subito richiude. 

Barnes scrive bene, a volte indugia nell’autocompiacimento – ma è un “falso storico”, perché chi si autocompiace, alla fine, non è lui ma Tony Webster, convinto che la sua mediocritas, per tutto il libro o quasi, sia un valore. E che non ci sia stato nulla di male. Un uomo che chiede a Veronica addirittura se, secondo lei, lui la amava davvero. E lei laconica: se mi fai questa domanda, se non lo sai tu, allora vuol dire che non mi amavi. Quanto anche noi difettiamo di autoanalisi, della capacità di leggerci dentro. Perché, credo, viviamo una vita spesso meccanica e non riusciamo se non raramente ad alzare la testa, ritrovarci sotto un cielo di qualsivoglia colore, a dire: questo sono io, questo sono io qui in questo momento. Rari momenti di consapevolezza. 

Scrive bene, Barnes, dicevo: preciso e chirurgico, con lampi di asciutto acume come “che sproporzione fra le loro ansie e le nostre esperienze”, a proposito dei timori che i genitori dei quattro amici avevano sui pericoli cui essi andavano quotidianamente incontro. 

Trama ben congegnata, con alcuni elementi decisivi disseminati qui e là (il diario nelle mani della madre di Veronica e non in quelle di Veronica, perché? Perché “gli ultimi sei mesi sono stati i più felici”, che ne sa la madre, anzi La Madre di Veronica?) che, insomma, si potevano cogliere anche prima, se non fosse che l’immedesimazione con il protagonista diventa tale nel lettore che, alla fine, si pensa e si agisce come lui, senza opporre resistenza agli eventi, senza accorgersi di quello che, macroscopico, passa davanti agli occhi. 

E poi c’è un insegnamento, che ho colto e su cui devo riflettere. Ad un certo punto Webster riflette sul fatto che passiamo tanto tempo a scrivere, fare foto, etc. perché vogliamo lasciare traccia di noi. Ma se non c’è nessuno che ci legge o che guarda quelle foto, allora, a cosa serve? Come dire: meglio incontrarsi davvero e parlarsi, piuttosto che lasciare su un foglio quello che vogliamo dire a qualcuno, magari a qualcuno che amiamo. Allora mi chiedo, ma la domanda non riesco ancora a formularla precisamente: scrivere per raccontare mi aiuta a vivere meglio la mia vita, oppure sto solo perdendo tempo, perché se non ci sono lettori, il mio lavoro è vano? Lei mi dice che scrivere è comunque terapeutico. Ma l’aspirazione, l’ambizione all’universalità del proprio pensiero, a raggiungere tanti lettori, realizzabile solo per la reale presenza di un pubblico, come fa a reggere se questo pubblico non c’è, non ci sarà mai? 
E poi, dal punto di vista ‘storico’ personale: chi saprà veramente chi sono, cosa pensavo quando ho scritto, e perché ho scritto, se non mi è chiaro neanche ora? Vale a dire: anche io correrò il rischio di essere ricordato ‘per difetto o per eccesso’, sulla base di memorie per forza di cose parziali o fallaci. Ma ora di scrivere non posso fare a meno, e sono contento di aver letto questo libro e che qualcuno l’abbia scritto. Qualcuno un giorno penserà lo stesso del mio lavoro. Ne sono sicuro. Ma non posso saperlo. Mi auguro che accada.